MONDO MEDIATICO, FORZE ARMATE E PUBBLICA INFORMAZIONE. COSA È CAMBIATO E QUALE IL FUTURO DI UNA DINAMICA TANTO COMPLESSA, SULLO SFONDO DEI NUOVI SCENARI DI CRISI


Intervista al Capo ufficio Pubblica Informazione di SMD, Colonnello Riccardo Cristoni, tra aggiornamenti, riferimenti dottrinali e nuovi scenari operativi, in cui si sviluppa il complesso rapporto tra operatori dell’informazione e militari

 

 

Di GIOVANNA RANALDO                                                                                                                                          Roma, 23 maggio 2014

Foto: PIO SMD

 

I tempi sono cambiati e si percepisce nell’aria! Se una volta quando si entrava in via XX Settembre si parlava di obiettivi come: consolidare l’immagine della Difesa e delle Forze armate impegnate anche nei teatri operativi, prevenire le crisi mediatiche, diffondere le informazioni a favore della popolazione e mantenere i giusti equilibri nel modus operandi e tra i vari settori della Pubblica Informazione delle Forze armate, oggi le cose sono diverse. Tempi di cambiamento, di new media che imperversano, dello Strumento militare in pieno rinnovamento stritolato dalla crisi economica, di vecchie tradizioni tramandate nel solco dell’innovazione e di un’opinione pubblica più partecipe, disillusa e informata. Sullo sfondo, i mutati scenari strategici caratterizzati da una politica internazionale a tratti imprevedibile, sia sul fronte operativo, che mediatico, e un comune denominatore che si prende il nome di “comunicazione”. E’ questo lo scenario che quotidianamente si trova ad affrontare con il suo staff, il Colonnello Riccardo Cristoni, Capo Ufficio Pubblica Informazione (Public Information PI) del Capo di Stato Maggiore della Difesa italiana, dal 30 dicembre scorso.

 

Col-Riccarado-Cristoni.JPG

  

 Il colonnello Riccardo Cristoni in Afghanistan

 

Piglio flemmatico e determinato, il colonnello Cristoni vanta un pregresso professionale degno dei migliori esperti internazionali in materia di comunicazione e relazioni con i media. Alpino, nato a Sarzana nel 1965, sposato e padre di tre figli, ha alle spalle numerose missioni fuori-area tra Afghanistan, Iraq, Mozambico, teatro balcanico (per citarne alcune). La sua carriera nella Pubblica Informazione è iniziata a partire dal 1995, anno in cui ha prestato servizio presso l’Ufficio Stampa dello Stato Maggiore dell’Esercito SME a Roma. Chief Media Operations (Capo Ufficio Stampa) del Comando di Corpo d’Armata di Reazione Rapida della NATO, a Solbiate Olona, è stato “portavoce” per la missione “Amber Fox” (NATO) in Macedonia e Kosovo. Tra i suoi incarichi anche quello di Capo Ufficio Stampa (Chief PIO, Public Information Officer) e portavoce del Comandante di ISAF (International Security Assistance Force). Dal 2007 al 2012 ha ricoperto l’incarico di Capo Sezione Pubblica Informazione del Gabinetto del Ministro della Difesa, con il compito di gestione delle attività PI in ambito nazionale su eventi d’interesse o rilevanza per il Ministero della Difesa e di mantenere contatti diretti con i principali media. È stato delegato a seguire le tematiche mediatiche e di comunicazione in ambito Public Diplomacy[1] NATO ed EU-PESD (Politica Europea di Sicurezza e Difesa). È inoltre qualificato come Addetto Stampa operativo sia nazionale che NATO e ha frequentato corsi di formazione nell’ambito dell’Information Operation e della Strategic Communication della NATO. Ci accoglie in ufficio, tra un impegno e l’altro e da qui si sviluppa una piacevole chiacchierata.

 

 

Colonnello la Difesa negli ultimi anni sta investendo molte risorse nel campo della comunicazione, e si parla di Pubblica Informazione (o Public Information) PI, anche tecnicamente, come funzione di comando. Può spiegarci cos’è? 

Certo. Soprattutto nelle Forze Armate italiane, e in genere nelle FA dei Paesi dell’Alleanza, la funzione dei rapporti con la stampa (le Pubblic Information), è abbinata alla funzione di comando. Cioè a dire: la responsabilità primaria del comandante è quella di stabilire e mantenere i contatti con la stampa. Questo lo si può fare direttamente o tramite un addetto stampa appositamente preparato. In questo settore, le Forze Armate italiane sono cresciute molto grazie alla partecipazione alle missioni internazionali. Le operazioni nei Balcani sono state il salto principale, non consideriamo in questo le esperienze in Mozambico e in Somalia, perché sono state missioni particolari (in regioni lontane e con l’utilizzo dei militari di leva), mentre nei Balcani (la Bosnia, il Kosovo) e successivamente l’Iraq e l’Afghanistan, hanno consentito ai PI (Addetti alla Pubblica Informazione n.d.r.) di crescere dal punto di vista qualitativo sia in ambito nazionale, che internazionale. Sono stati banchi di prova molto utili per far crescere i nostri addetti stampa.

  

E’ corretto affermare che lei è l’addetto stampa del Capo di Stato Maggiore della Difesa?

Sì è corretto definire la posizione del Capo ufficio Pubblica Informazione come l’addetto stampa del Capo di SMD, poiché la figura del portavoce, come ben sappiamo, è regolata da normative di legge (Legge 7 giugno 2000, n. 150) che prevedono specifici requisiti e percorsi formativi che il personale militare a volte non possiede, ma che sta sempre più acquisendo, tra cui anche l’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti.

  

Libano 2013 3.jpg

 

Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Binelli, in visita al contingente in Libano nel 2013

 

Negli ultimi 20 anni circa, l’approccio della Difesa al mondo dei media è progressivamente cambiato. Abbiamo visto anche l’avvio di una web-tv con impiego di esperti della Riserva Selezionata[2]. Quali sono oggi le novità rispetto all’avvento dei new media di ultima generazione?

Sicuramente la Difesa cerca di stare al passo con le nuove sfide del mondo dell’informazione, soprattutto di questo “villaggio globale”[3], in cui siamo parte, dove si può fare notizia con un tablet[4] o un cellulare ed essere immediatamente sul web. Noi non abbiamo queste aspirazioni, però ovviamente il web, il 2.0, è una delle aree in cui abbiamo maggiormente investito, oltre a quella della formazione del personale. I siti web della Difesa hanno adesso tutti gli aspetti di questo nuovo mondo, quindi la possibilità di andare su Facebook, su Twitter, su Flickr. Si cerca di stare al passo. Per un ente istituzionale non è così facile, perché questi social media richiedono l’interazione, e la comunicazione istituzionale non è così dinamica. Tuttavia, stiamo cercando di migliorare e di renderci sempre più presenti in questo panorama. Per quanto riguarda invece la web-tv abbiamo avuto degli ottimi risultati impiegando appunto personale della Riserva Selezionata e stiamo avendo prodotti costantemente migliorati in termini di qualità, come accresciuta è anche la possibilità di formare il personale, non solamente a trattare con i media tradizionali, ma anche a comunicare in un modo diverso sul web perché la notizia, come ben sappiamo, che va sulla carta stampata o sulla tv, è ben diversa da quella che viene veicolata sul web o sui canali dei social media.

 

Soprattutto a livello di tempistiche…

Di tempistiche e anche di formazione: come i 130 caratteri del twitter: dove devi condensare in quei 130 caratteri il messaggio o l’informazione che vuoi far passare.

 

 

ISAF Brg Sassari 2011 5.jpg 

  Un medico del contingente italiano visita i piccoli della zona. Afghanistan 2011

 

Lei si occupa di Pubblica Informazione, PI. Qual è la differenza dalla Public Affairs PA, di cui si parla nel contesto NATO e perché l’Italia non ha adottato lo stesso apparato degli alleati?

Questo è un retaggio un po’ datato. Il Public Affairs in ambito NATO prevede anche la parte che è di relazioni esterne, cioè a dire: un addetto al PA alleato, in particolare americano (perché la denominazione deriva più dall’ambiente anglosassone), mantiene anche relazioni esterne con la popolazione o le autorità. Questo in ambito nazionale non avviene, perché noi abbiamo già chi tiene questi rapporti (il cerimoniale o magari i reparti Affari Generali), mentre noi, nella PI, ci dedichiamo esclusivamente ai rapporti con la stampa. Diciamo che in ambito NATO la definizione Public Affairs, è un termine che spazia in tutta quella che è la comunicazione e non solo in quelli che sono i rapporti con i media.

 

Come si trova il giusto equilibrio tra segreto (per tutelare la sicurezza, o di un’operazione in corso o per il segreto di Stato etc…) e la comunicazione istituzionale pubblica?

Diciamo che sono stati fatti dei passi in avanti anche in quella che è la capacità della stampa di comprendere determinati argomenti, grazie ai corsi che abbiamo realizzato, sempre più frequenti, con l’università e altri istituti, per la formazione dei giornalisti che trattano con la Difesa, di temi della Difesa, o possono trattare con il personale della Difesa in operazioni. Abbiamo sensibilizzato i giornalisti, abbiamo spiegato meglio come siamo fatti, con chi devono interagire, anche perché è un mondo complesso anche per noi. Mi spiego meglio. Proviamo a paragonandoci ad altri dicasteri, dove c’è un ministro e un dicastero, vediamo come da noi vi siano: un ministro, un Capo di Stato Maggiore della Difesa, quattro Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate. Sapere chi è l’interlocutore giusto è importante. Ma soprattutto, abbiamo spiegato ai giornalisti molti aspetti di quelle che sono alcune dinamiche interne, in operazioni o su determinati argomenti, che per motivi di riservatezza non possono essere divulgati.

Devo dire che la sensibilità dei media è cresciuta notevolmente e quando noi non possiamo rendere note informazioni (come succede purtroppo in incidenti in cui c’è una perdita di vite umane, che comporta una riservatezza sulle generalità del caduto), i giornalisti hanno dimostrato sensibilità, sanno che finché le famiglie non sono informate, non devono chiederci questo genere di dati. Anche perché penso che la cosa peggiore che possa accadere a un familiare, a un genitore, è quella di apprendere dalla televisione che il proprio figlio è morto. Ci sono state altre circostanze in cui, per esempio all’estero, operatori che volevano realizzare delle immagini di copertura della base, non potevano farlo perché avrebbero potenzialmente mostrato al nemico com’era strutturata. In questo caso era fattibile documentare solo dei particolari, ma l’operatore ha dimostrato di comprendere che oltre non potevamo spingerci, perché sarebbe stato uno strumento in mano a chi rappresentava una minaccia per noi in quel momento. Altro esempio, quando operano le forze speciali. Non possiamo rilasciare i dettagli dell’operazione perché andrebbero a minare la sicurezza di chi lavora con noi e anche quella di chi conduce l’operazione. I media in questo hanno risposto molto bene, non abbiamo mai avuto richieste di forzature o accuse di censura. Io ritengo che se il giornalista è informato e capisce il motivo per cui non gli posso dare quella particolare informazione, non da riscontri negativi.

 

 Kosovo 2009 2.jpg

 

Cerimonia in Kosovo nel 2009

 

 

Mi pare di capire che tra i pilastri della PI vi sia anche un’attenzione alla scelta del codice linguistico, che mira a farsi comprendere dai cittadini… e tutti questi acronimi? 

Gli acronimi sono una grossa sfida, soprattutto in ambito internazionale. Noi (io e gli addetti stampa con cui lavoriamo nei vari teatri d’operazione) poniamo molta attenzione in questo, è una delle cose che insegniamo: non utilizzare gli acronimi o laddove è impossibile evitare, spiegare cosa si vuole dire. Ovviamente c’è chi si sente sicuro citando l’acronimo, ma si deve rendere conto di qual è l’audience a cui si sta riferendo. Non si può parlare ed essere troppo tecnici rivolgendosi a un pubblico generalista, non si può essere troppo semplici parlando a chi invece è uno specialista del settore, quindi è essenziale trovare il giusto equilibrio e fare attenzione a chi sono destinate le mie informazioni.

 

Da più di 10 anni parliamo di media embedded, ci spiega chi è e com’è inserito nel contesto della Difesa italiana e se vi sono aggiornamenti rispetto alla variante alla Direttiva Operativa Nazionale del 2009?

Beh noi siamo arrivati un po’ dopo gli altri eserciti che già avevano sperimentato in altre operazioni, altre guerre, la presenza dei “giornalisti al seguito” delle truppe. Non si tratta di una figura nuova perché se andiamo indietro, già dalla I Guerra Mondiale abbiamo i giornalisti americani al seguito delle truppe, che venivano vestiti in uniforme e seguivano i militari. Noi siamo arrivati dopo gli altri alla forma dell’embedded, cioè quel giornalista che segue le truppe nei trasferimenti, vive con loro, partecipa alle operazioni, alle attività e quindi è soggetto alle regole di comportamento dei militari. Abbiamo lavorato su questo aspetto perché in alcune esperienze abbiamo avuto dei giornalisti meno attenti, che con il loro comportamento potevano mettere a rischio la buona riuscita dell’operazione. Ci sono anche eventi particolari da ricordare, come quello di alcuni giornalisti che arrivavano in un villaggio afghano, vedevano un bambino o una scena particolare, scendevano dal mezzo e si dirigevano verso quell’immagine. Dal punto di vista giornalistico è sicuramente accattivante, ma dal punto di vista della sicurezza è un azzardo tremendo, perché metteva a rischio non solamente la loro vita ma anche la vita dei militari che avrebbero dovuto garantire la loro sicurezza. Dunque spiegare bene le regole di comportamento, d’ingaggio, il perché si fanno le cose, rende il giornalista cosciente di quali sono le modalità da seguire e quanto sono importanti. Per quanto riguarda le novità che sono state adottate c’è quella della valutazione e responsabilità del comandante sul campo di far partecipare il giornalista a un’attività operativa in base alle condizioni di sicurezza del momento; quindi non è automatico che il giornalista embedded possa partecipare a tutte le attività, ma sicuramente bisogna spiegargli il perché della decisione presa.

  

 ISAF Brg Sassari 2011 9.jpg

 

Afghanistan 2011

 

 

Dove si studiano queste regole di comportamento per diventare embedded? 

Abbiamo dei corsi che si sono realizzati, al momento ce ne sono tre in atto, uno con la fondazione “Cutuli” e l’Università di Tor Vergata, uno con la Federazione Nazionale della Stampa, e un terzo con l’Istituto Global Studies. Sono tutti mirati a fornire informazioni sul mondo della Difesa, ma anche un’esperienza pratica su come comportarsi in teatri di crisi: come muoversi su un mezzo blindato, come proteggersi, cosa fare se succede un incidente, quindi modalità pratiche. Ovviamente quando il giornalista arriva in teatro d’operazione, viene fatto un refreshment (aggiornamento), (anche perché a volte possono esserci professionisti che sono alla prima esperienza, che non hanno frequentato questi corsi), su come si devono comportare e soprattutto spiegargli che quando sono fuori insieme ai militari, la responsabilità della loro sicurezza è dei militari, quindi si devono affidare completamente a loro.

  

Perché formare anche i militari? 

Perché il militare nasce con l’idea che quando si muove è in una squadra, con personale che si conosce e che si garantisce mutuamente la sicurezza. Inserire un elemento esterno a cui fornire le stesse garanzie, ovviamente è un qualcosa a cui bisogna abituarsi, oltre al fatto che bisogna abituarsi anche a parlare con i giornalisti a dargli le informazioni che servono, a saper spiegare il lavoro che stiamo facendo. Fondamentale è parlare dell’esperienza personale, del lavoro che uno svolge. Al militare (che sia soldato, colonnello o generale) non viene chiesto di spiegare il motivo politico o l’opportunità di fare quell’operazione o di non farla. Il militare deve essere capace di spiegare come la sta facendo, cosa si propone come scopo e come si è preparato per farla, quindi cosa c’è dietro un’operazione, dietro all’essere umano, e cosa si vuole raggiungere, in modo che sia chiaro a chiunque. Non siamo in Afghanistan per fare turismo militare ma siamo in Afghanistan perché c’è stata affidata una missione e dev’essere spiegata anche ai livelli più bassi.

 

Anche perché i media fanno da tramite tra il mondo militare e i cittadini, che hanno diritto di comprendere quanto avviene…

Esatto, la finalità è quella d’informare l’opinione pubblica di quello che stiamo facendo. Il concetto molto anglosassone che il taxpayer (contribuente) ha diritto di sapere come vengono spesi i propri soldi, io credo che sia estremamente corretto. Il cittadino ha diritto di sapere cosa stanno facendo, oltre che i propri figli, i propri mariti, mogli, i propri parenti, anche cosa fanno i propri giovani impegnati nelle missioni all’estero. Missioni che sono stabilite e autorizzate dai propri governi, non sono i militari che decidono di partecipare a una missione ma è una decisione di carattere politico, e questo non va mai dimenticato perché molto spesso il mondo militare viene accusato di voler prendere parte a queste missioni per esigenze prettamente di Difesa, quando invece sono chiaramente esigenze di politica estera del Paese.

  

Somalia Firma accordo 2014.jpg 

Somalia, 23 marzo 2014. Il generale Massimo Mingiardi, comandante della missione EUTM e il ministro della Difesa somalo, Mohamed Sheikh Hassan Hamud, all'atto della firma della direttiva ministeriale sulla politica di Difesa 2014-2016. 

 

Quali sono gli errori più comuni, eclatanti o pericolosi che negli anni della sua carriera ha avuto modo di osservare, sia da parte degli operatori dell’informazione che da parte dei PI (addetti alla pubblica informazione) di Forza Armata?

La cosa che io spiego sempre ai mie addetti stampa o comandanti che ho avuto l’onore di servire come addetto stampa, è che il giornalista è un professionista che deve portare a termine il suo compito, che è quello di realizzare un pezzo, poi possiamo trovare (come in qualsiasi settore professionale, compresi i militari) buoni professionisti, professionisti mediocri, ottimi professionisti, però non dobbiamo dimenticarci che il giornalista deve portare a termine un lavoro. Bisogna mettere nelle condizioni il giornalista di realizzare quello che sta cercando, dunque: al giornalista televisivo devo permettergli di realizzare delle riprese, non devo fargli un briefing di tre ore, del tutto inutile; a un giornalista della carta stampata più informazioni e dati gli do, più fornisco strumenti utili a sostenere il suo pezzo. Devo fare attenzione a differenziare anche l’offerta ma soprattutto non bisogna mai lasciarsi andare a giudizi o commenti personali che possono andare magari a stravolgere quella che è l’essenza della missione. Opinioni personali o giudizi di altro carattere sono validissimi, ma bisogna esprimerli quando si è nelle condizioni di poterlo fare, senza andare a togliere credibilità a quello che stanno facendo i militari in quel momento.

Ci vuole la giusta attenzione ai rapporti con i media, perché la relazione dev’essere chiara, c’è uno scambio d’informazioni la cui finalità dev’essere quella che dicevamo prima, di informare il pubblico. Ci sono molti giornalisti che lo fanno correttamente, e sono quelli con cui noi normalmente operiamo, c’è qualcuno che purtroppo, al di là di quello che noi presentiamo oggettivamente come fatti, vede una realtà completamente diversa e scrive di conseguenza. Noi accettiamo anche quello, perché quello che è fondamentale ribadire è che gli addetti stampa militari italiani non producono censure. Noi non facciamo censure, né su quello che viene filmato, né su quello che viene scritto, l’unica cosa sono le limitazioni a carattere di sicurezza su immagini impropriamente riprese, però ogni giornalista è libero di scrivere quello che vuole. Noi non chiediamo ai giornalisti che vengono con noi di vedere i loro pezzi. Se loro ci chiedono chiarimenti o ulteriori dettagli, noi glieli forniamo, ma non facciamo nessun tipo di censura su quella che è l’attività svolta dai giornalisti, è importante ribadirlo.  

 

Anche perché ci si aspetta di trovarsi davanti a un professionista in linea con la propria deontologia e magari con una personale etica, in questo l’Ordine dei Giornalisti sta lavorando molto. 

Quel che dicevo prima, come in qualsiasi professione ci sono professionisti di diverso livello, ci possiamo trovare anche giornalisti che magari hanno un’idea personale, culturale, politica o anche una linea editoriale che tende a enfatizzare alcuni aspetti rispetto ad altri.

 

 ISAF Brg Sassari 2011 8.jpg

 

 La condivisione del cibo è uno dei momenti comunicativi più importanti nella relazione con le popolazioni locali in missione. Afghanistan 2011

 

Oggi si parla di comunicazione interculturale, media operations, crisi mediatica, perfino il termine “guerra” è stato sostituito da “conflitto”, spesso accostato al termine “asimmetrico”. Com’è cambiata oggi la dinamica internazionale e quanta valenza ricopre la comunicazione in questi ambiti?

Beh la leadership militare ha preso sicuramente coscienza del fatto che la comunicazione è uno degli aspetti fondamentali delle operazioni, ne sono parte intrinseca e soprattutto garantiscono effetti notevoli. Se ci riferiamo alla prima guerra del Golfo, il comandante della missione aveva affermato che la guerra non era vinta finché la CNN non diceva che era stato fatto. Ci sono altri esempi altrettanto validi. Se guardiamo la missione in Afghanistan nel massimo della sua ampiezza (quando nel 2011 c’è stato l’incremento), uno degli elementi del comando di ISAF, ampliato in capacità, è stato proprio il dispositivo relativo la comunicazione. Un’attenzione particolare alla comunicazione per contrastare la propaganda afghana, ma soprattutto per spiegare (oltre agli attori locali e regionali, alle nazioni che contribuivano con uomini e mezzi), cosa stava succedendo, le ragioni di quella missione internazionale e soprattutto i problemi e i progressi che si stavano acquisendo.

Dunque è diventato fondamentale nella condotta dell’operazione il saper comunicare quello che si fa, gli sviluppi, e saper gestire, laddove ci sono, le crisi mediatiche. Crisi mediatiche che possono arrivare anche dal comportamento del singolo sul terreno, perché l’atteggiamento sbagliato di un soldato nei confronti della popolazione (ad esempio dal punto di vista del non rispetto di usi e costumi, di cultura o religione), può avere effetti domino sull’intera regione e quindi minacciare la buona riuscita della missione. Non dimentichiamoci che le vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, un mese dopo hanno avuto conseguenze devastanti in Afghanistan, con scontri, assalti e attacchi alle forze internazionali, perché la propaganda ne aveva fatto buon uso e le aveva usate contro i componenti della forza internazionale.

Circa l’approccio culturale, devo dire che da questo punto di vista, gli italiani sono stati capaci sempre di mediare con le popolazioni con cui sono venuti in contatto e con cui hanno operato, di riuscire a stabilire quell’empatia, che gli ha fatto comprendere i bisogni e le necessità, ma mantenendo sempre una forma di rispetto per quelle che erano la cultura, gli usi delle religioni. Un requisito che emerge non solamente guardando ai comunicatori (intesi come soggetti che trattano con la comunicazione e quindi anche con i media locali), ma anche al militare semplice (che nella sua attività ha contatti con la popolazione), è quello di saper comunicare e trasmettere questo rispetto. Curiamo molto questo aspetto, soprattutto nella fase di preparazione di ogni missione. Penso a quei teatri che hanno una connotazione culturale diversa dalla nostra, sia dal punto di vista religioso, che dal punto di vista di usi e costumi.

Per far fronte a tutto questo, vengono svolte delle lezioni ad hoc su quella che è la religione islamica, su quello che è l’uso tribale,  e le modalità di ricezione degli ospiti. Ovviamente non stiamo parlando di lezioni di approfondimento in modo da comprendere a fondo una cultura come quella afghana che è una cultura millenaria, ma nozioni utili a saper gestire un rapporto con il capo villaggio, con chi ha bisogno di un sostegno umanitario, o chi viene in contatto con i militari italiani, nel modo giusto, senza irritare la controparte. Se guardiamo all’esperienza con la popolazione afghana, vediamo che la preparazione in tal senso è stata fondamentale e ha dato risultati ottimi. Dunque l’aspetto relativo alla comunicazione interculturale, sviluppata anche a livello di singolo soldato, nelle missioni con partecipazione italiana, ha  dimostrato come in questo settore siamo leader. 

 

 ISAF Brg Sassari 2011 1.jpg

 

Afghanistan 2011. Il istruttori dei Carabinieri (2^ Brigata Mobile) impegnati nell'addestramento delle forze di Polizia locali. E' questa una delle attività di maggior rilievo in vari teatri operativi, dall'Afghanistan, alla Libia.

 

Circa gli investimenti della Difesa, sul piano mediatico, c’è spesso confusione, può spiegarci brevemente come funziona?

La Difesa e le Forze Armate ne hanno bisogno per il loro funzionamento e per i requisiti operativi che devono mantenere per assolvere ai compiti assegnati. La Marina ha necessità di specifiche tipologie di navi, l’Aeronautica di determinati tipi di aerei che devono garantire le funzioni per cui la Forza Armata è stata formata, l’Esercito lo stesso, ha bisogno di avere capacità per poter mandare poi quelle truppe sul terreno nelle migliori condizioni di sicurezza, quindi essere dotata di mezzi con efficienti tipologie di protezioni. Le missioni che ci vengono assegnate richiedono aerei che possano supportare o trasportare uomini laddove il governo decide di mandarli, o la Marina, come con l’operazione Mare Nostrum, ha bisogno di navi che abbiano determinate caratteristiche. Anche per quella parte dell’Arma dei Carabinieri che opera nell’ambito della Difesa, e quindi non nell’ambito dell’ordine pubblico, ci sono requisiti operativi che devono essere soddisfatti e garantire di operare in piena sicurezza.

Progetti di questo tipo, non nascono dal nulla, ma sono il frutto dello studio dei requisiti che si vogliono ottenere per quei determinati mezzi, equipaggiamenti e tecnologie; sviluppo del progetto e poi la fase di produzione, quindi si parla di progetti che hanno una visione che va dai 10 ai 15 ai 20 anni. Attualmente stiamo volando con aerei che sono nati concettualmente negli anni ’80: il Tornado è entrato in servizio nel 1982, e sono 32 anni che vola ed è stato più volte ammodernato. Ha volato recentemente anche in Afghanistan, è stato impiegato anche nell’operazione in Libia e ha dimostrato di esser ancora efficiente. Tuttavia sono mezzi alla fine della loro vita tecnica. Si rende necessario sostituirli ed è stato necessario avviare i progetti per avere nuove capacità. Sono periodi lunghi e quindi gli acquisti non vengono decisi all’improvviso, ma sono frutto di una pianificazione, di un esame attento di quello che è lo strumento militare che si vuole realizzare. Ovviamente la Difesa indica i requisiti e le necessità ma la decisione è politica e governativa in base allo Strumento che si vuole disegnare.

 

Riccardo Cristoni, dal Gabinetto del Ministro, in giro per il mondo e tra i teatri operativi, una vita spesa anche per la comunicazione. Riesce ancora a trovare un po’ di tempo per cose più “normali” tipo leggere un libro per divertimento o praticare sport?

Io ho iniziato come addetto stampa nel 1995, tolti i periodi di studio della carriera militare sono 15 anni che lavoro nel settore della Pubblica Informazione. Devo dire di non essere mai stato un grande appassionato di lettura, mi piacciono molto i film, ne faccio anche incetta: tipo guardarne uno dopo l’altro, spendendo anche un pomeriggio intero! Sullo sport un po’ meno, perché molto spesso siamo chiamati a stare dietro una scrivania quindi è difficile trovare degli spazi per attività specifiche. Il tempo libero che mi rimane lo dedico alla famiglia e ai tre figli che m’impegnano abbastanza. 

 

E come riesce a conciliare i ritmi dell’ufficio PI con la famiglia? 

Mi ritaglio i fine settimana, visto che il resto dei giorni i ritmi sono abbastanza intensi, anche perché c’è sempre qualcosa di nuovo. Lavorando a livelli più alti ovviamente gli input estemporanei e gli imprevisti sono maggiori; lavorando a livelli più bassi si può avere una vita più regolata, però è un settore che mi affascina sempre e in cui trovo ancora tanti stimoli, quindi per adesso va bene così. 

 

Per concludere, quale consiglio o indicazione si sente di dare a PI e agli operatori dell’informazione per il prossimo futuro?

Per i PI, la speranza è che si riesca nell’ambito della Difesa a creare un profilo di carriera destinato agli addetti stampa come succede in altri eserciti. E’ necessario garantire continuità perché i rapporti con la stampa non possono essere estemporanei o durare solo pochi anni. Sono contatti importanti, che vanno coltivati e forniscono sempre una crescita professionale. Per quanto riguarda gli operatori dell’informazione, tra i giornalisti ormai è decaduta la figura dello specializzato, ne sono rimasti veramente pochi anche perché le riviste tematiche sono molto limitate, anche loro hanno subito un periodo di crisi; ovviamente ci troviamo a trattare con un giornalista generalista che proviene magari dal mondo degli esteri. L’importante è che nel momento in cui si approccia il mondo della Difesa, che come dicevamo è un mondo un po’ particolare, veniamo interpellati, ma non come la fonte che dice la verità, perché ognuno può criticare e non essere d’accordo con quel che diciamo, ma per darci la possibilità di fornire il nostro punto di vista e soprattutto per spiegare a chi non è vicino al mondo della Difesa determinate dinamiche.

La chiarezza dell’informazione è fondamentale: un professionista che si avvicina alla missione in Afghanistan deve capire com’è nata, come si è sviluppata, in che fase siamo. Come specialisti lo possiamo spiegare, siamo preparati per questo, poi le valutazioni sull’efficacia della missione, sui risultati acquisiti… quelli li lasciamo al giornalista che li esamina. Noi rivendichiamo il diritto di essere i tecnici, quindi come tali di poter dare la nostra spiegazione e le nostre indicazioni e quindi di contribuire in qualche modo; questo lo rivendichiamo anche perché crediamo di aver raggiunto una buona professionalità e di essere in grado di spiegare anche a chi non è nella Difesa, cosa succede, quali sono i meccanismi, il perché di certe situazioni. Ovviamente questo è un pezzo dell’informazione a cui va sommato il resto della notizia e che il giornalista nella sua ricerca e nella sua indipendenza deve portare avanti.

_

 



[1] Il termine Public Diplomacy sembra sia stato usato per la prima volta nel 1965 dal decano Edmund Gullion della Fletcher School of Law and Diplomacy presso la Tufts University. Esso fu creato con l’istituzione dello “Edward R. Murrow Center for Public Diplomacy” presso la Fletcher. L’attività in questione veniva descritta in questo modo:

La Public Diplomacy “si occupa dell’influenza degli atteggiamenti pubblici sulla formazione e implementazione delle politiche estere. Essa include le relazioni internazionali oltre la diplomazia tradizionale; la coltivazione da parte dei governi dell’opinione pubblica in altri paesi; l’interazione dei gruppi privati e interessi di una nazione con quelli di un’altra; il reporting degli affari esteri e il suo impatto sulla policy; la comunicazione tra quelli il cui mestiere è la comunicazione, come tra diplomatici e corrispondenti esteri; e i processi di comunicazione interculturale.” 

[2] La riserva selezionata è una componente della organizzazione delle Forze Armate italiane (le cosiddette forze di completamento), costituente la Riserva militare, nella quale si annoverano anche gli ufficiali di complemento.

[3] La locuzione villaggio globale è stata usata per la prima volta da Marshall McLuhan, uno studioso delle comunicazioni di massa, nel 1964, in un suo libro ("Gli strumenti del comunicare" - originale: "Understanding Media: The Extensions of Man").

[4] La tablet PC (lett. PC tavoletta) è un computer portatile che grazie alla presenza di uno o più digitalizzatori (digitizers, in inglese) permette all’utente di interfacciarsi con il sistema direttamente sullo schermo mediante una penna e, in particolari modelli, anche le dita.

 

 

RIPRODUZIONE RISERVATA