Di Flavia Donadoni,
23 gennaio 2016
"Papà, mi racconti quella storia di quando sei nato sotto le bombe? E di nonna che andava a fare la fila per il pane e la facevano passare avanti perchè aveva te nella pancia? E di quella signora della Germania che nascose il nonno quando i tedeschi fecero il rastrellamento?" "Pensa, se non ci fosse stata quella signora che era venuta a vivere in Italia non ci saremmo potuti essere ne io e ne te".
Storie. Storie di famiglie, di persone, di mondi che s’intrecciano l'uno con l'altro.
A volte ci percepiamo come monadi isolate, che possono controllare il loro mondo e ciò che accade, e invece poi scopriamo che siamo tutti collegati, nel tempo e nello spazio. Ciò che è avvenuto tanti anni fa a un membro della nostra famiglia da cui discendiamo ci riguarda, ci condiziona, influenza il nostro modo di essere e quello che ci accade. Anche quello che ignoriamo, che ci è stato tenuto nascosto, ha un peso sulla nostra vita. Quello che non sappiamo diventa un buco nero in cui si accumulano i misteri dentro di noi, l'inspiegabile dei nostri comportamenti. Relazioni a volte complesse.
Secondo la Psicogenealogia, branca della psicologia che indaga le problematiche familiari attraverso le relazioni verticali, e secondo la dott. Anne Ancelin Schützenberger, professore di psicologia all'Università di Nizza (che ha sviluppato tale metodo), la ricaduta di quello che ci accade e dei nostri comportamenti avverrà sui nostri discendenti per sette generazioni (La sindome degli antenati). Significa che siamo tutti connessi, che non c'è una vera distanza tra noi e gli altri, perché in qualche modo tutto ci riguarda. "Mio nonno si è impiccato, l'hanno trovato appeso con una corda in campagna, come si faceva a quei tempi". "Nessuno mai ne ha compreso il vero motivo, ma mia madre ne parlava sempre e, come leggeva un accenno di depressione o di tristezza sul volto di mio padre o sul mio, s’incupiva e veniva colta dalla paura che succedesse ancora", racconta Ambra, 38 anni, al termine di un percorso terapeutico. "Credo che le sia rimasto dentro un senso di abbandono che ho sempre percepito. I miei attacchi di panico sembrano manifestare quello stesso sgomento che l'ha accompagnata per tutta la sua vita".
Quando si sopravvive a una storia tragica, come l'olocausto, una guerra, una qualunque situazione in cui si conosce il peggio dell'essere umano o della vita, e lo si subisce, quando, insomma, si viene colpiti da un grande dolore che segna per sempre, allora la spinta alla sopravvivenza può essere più forte dell'annientamento. Ci si rifà una vita, si va avanti e si mettono al mondo dei figli, come se generare vita fosse un antidoto per tutta quella morte che si ha dentro. Ma cosa succede al figlio del sopravvissuto che eredita quel pacchetto di dolore e di angoscia tutto intero, senza che prima venga in qualche modo elaborato, digerito, compreso?
E' quello che accade a Mara, donna bella e intelligente, affascinante protagonista di La foresta di girasoli, di Torey L. Hayden, scrittrice nonché psicologa infantile e docente universitaria statunitense. Ogni tanto fa delle stranezze, Mara. E’ la mamma di Leslie e di Megan. E’ una sopravvissuta. E’ anche la mamma di Klaus e di J., ma questa sembrerebbe essere un’altra storia. Invece no, è la stessa storia. A un certo punto, il passato di Mara, sopravvissuta agli orrori della guerra e agli abusi dei nazisti, viene fuori sempre più pressante e presente nella loro vita familiare. La diciottenne Leslie inizia ad avere una nuova visione della madre, le loro storie s’intrecciano, sono una conseguenza dell’altra. La vita di Leslie prende una strada diversa da quella delle sue coetanee, tutto quello che la riguarda passa sottotono, perché la protagonista principale è sempre la madre, le sue stranezze, le sue esigenze, il suo bisogno di essere contenuta. Le sue coetanee festeggiano i 18 anni, Leslie non ha nemmeno una torta; invitano le amiche a casa, vanno a fare l’amore con il ragazzo, frequentano la scuola in modo regolare, si prendono il loro tempo… Leslie no, la sua priorità è la madre. La figlia di una sopravvissuta non può avere una vita normale finché non apre gli anelli delle catene e scioglie quell’eredità, quella memoria di dolore che si tramanda altrimenti di madre in figlia, di generazione in generazione.
Anche in Olive Kitteridge è il figlio che ci dà la chiave di lettura fondamentale per accedere alla storia della protagonista, per vedere aldilà delle apparenze dove tutti gli altri si fermano. L'autrice, Elizabeth Strout, ci fornisce varie informazioni sparse sulla sua protagonista. Quasi per caso ci fa sapere che suo padre si è suicidato, e poi ce la mostra attraverso gli occhi degli altri, dei suoi ex allievi, dei suoi concittadini. Una donna forte, incisiva, originale, che nel bene o nel male ha lasciato una traccia in chi le sta intorno. Ma è solo dagli occhi del figlio che riusciamo a cogliere tutta la sua fragilità, tutto il dolore che le è rimasto dentro dalla sua storia familiare, e come questo dolore si trasformi in una scheggia impazzita che distrugge le relazioni intorno a lei e le impedisce di vivere un'intimità serena con il marito e con il figlio, proprio le persone che ama di più. Quel senso di continua paura che le è rimasto dalla sua storia familiare viene riversato nella sua relazione con il figlio in modo del tutto inconsapevole. E il figlio stesso viene relegato in un mondo di mutismo e isolamento da cui riesce a uscire solo attraverso un percorso terapeutico che gli svela finalmente i retroscena della sue emozioni, il punto dolente in cui si è sempre bloccato durante la sua vita. Riesce a dare voce al suo disagio, al senso di colpa che da sempre lo perseguita e lo fa sentire inadeguato, sbagliato. Perché se tua madre, la donna che ti ha messo al mondo e che dovrebbe amarti più di ogni altra persona vivente ti attacca e ti distrugge, allora vuol dire che c'è in te qualcosa di profondamente sbagliato e che tu non meriti neanche di vivere. Questo sentimento è come un parassita che si annida dentro e che mina la propria vitalità. Il dramma di questo dolore ereditato è che alimenta una percezione errata, (e infatti contemporaneamente l'autrice ci rivela come in realtà Olive adori il proprio figlio e sia del tutto inconsapevole del sentimento tossico che ha riversato dentro di lui). Come ne è inconsapevole Mara, per cui le figlie sono l'occasione di riscatto e la possibilità di sopravvivere all'orrore che ha dentro. Ma la propria storia familiare resta dentro, e come i geni si tramanda di padre in figlio, come una catena, fino a che qualcuno non ha il coraggio di spezzarla e di liberare tutti quelli che vengono dopo.
Quel mostro interiore che divora l’anima
Dicevamo... che la storia della nostra famiglia prima o poi, in un modo o nell'altro, ci raggiunge e ci ricorda che non siamo monadi isolate ma siamo legati l'uno all'altro da qualcosa di più del DNA. Il figlio di Sara cresce ignaro delle origini e del passato della madre, bambina ebrea unica della sua famiglia sfuggita all'Olocausto, finché una sconosciuta lo contatta per conoscere quella storia e gli mostra le foto di una bambina ebrea, Sara, appunto, sua madre. La sconosciuta è una giornalista americana che si è imbattuta nella storia di Sara e da quel momento non è riuscita più a dimenticarla. Quell'incontro cambia la sua vita, gli fornisce dei pezzi mancanti del puzzle, pezzi di cui ignorava la stessa esistenza. Sara è stata una sopravvissuta, ma non ce l'ha fatta a continuare a vivere, e, ormai adulta, moglie e madre, si è tolta la vita. Sara si è tolta la vita proprio quando ha ricominciato un'altra vita. Il mostro dentro è stato più forte della sua realtà fuori. Cosa ne è di quella storia di dolore che resta dentro? Con il tempo, passa il dolore acuto, passa il ricordo costante di quello che è avvenuto, le immagini che ossessivamente si ripresentano alla mente. Con il tempo quella storia comincia lentamente a corrodere tutto dentro, non è più il senso di colpa, non è più la rabbia, non più il dolore.... è un orrore che dilaga dentro, un senso costante di morte che si oppone alla vita, che tira giù. Finché la persona non si arrende, smette di lottare e si lascia andare alla follia o alla morte. In ogni caso perde la lucidità, non riesce più a circostanziare quell'evento, quell'evento diventa tutta la sua vita e tutto ciò che ha intorno. A nulla servono altri amori, altri fiori e la vita che continua, l'orrore è dentro e una volta che lo si è conosciuto è impossibile fuggire. Non si può fuggire perché è dentro. E non si può fuggire da ciò che si ha dentro. Lo si può solo incontrare, come si fa con i fantasmi nella notte, finché quella massa indistinta e bianca prende una forma ben precisa, la si può guardare, quasi toccare, farci amicizia e poi finalmente lasciarla andare. O conviverci, tenerli in tasca, e a volte sono piccoli come granelli e altri come un sasso, e altre ancora diventano un masso che ti tira giù. La chiava di Sara narra di una storia che non può essere raccontata perché troppo terribile. Solo dopo, quando il tempo ha raffreddato ciò che scotta, una donna estranea potrà svelare, raccontare e liberare quella storia che era dentro inascoltata. "Quando una storia viene raccontata non può essere dimenticata, diventa qualcos'altro, il ricordo di ciò che eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare."
La consapevolezza
Il lavoro sulla nostra storia familiare ci apre delle consapevolezze nuove su alcuni eventi che si ripetono nella nostra vita, su alcune tendenze, paure, aspirazioni che sembrano inspiegabili. Nella terapia familiare a orientamento sistemico relazionale lo studio della famiglia è sia trasversale che longitudinale, si estende alla famiglia attuale di appartenenza e va indietro per generazioni. Uno degli strumenti preposti è il "genogramma", una sorta di albero genealogico che permette alla persona di vedere la sua famiglia intera dal punto di vista relazionale, come un grafico di cui egli stesso denota le caratteristiche principali. Può vedere le connessioni tra se stesso e la sua famiglia, tra ciò che gli accade e gli eventi passati e le azioni dei membri della sua famiglia anche di varie generazioni precedenti. Diventiamo così consapevoli di come ogni nostra azione nel bene e nel male produca un'onda che si espande in tutta la sua potenza di drammaticità o di amore e investe persone anche molto lontane da noi.
In Camminando sull'acqua, di Eytan Fox, Pia, giovane donna tedesca, è investita dall'onda provocata dal suo nonno, spietato ex ufficiale nazista responsabile della morte di migliaia di ebrei. Viene lasciata dal fidanzato ebreo quando questi scopre le sue origini familiari. "Non c'è problema, tu non c'entri niente, ma dopo una settimana mi ha dovuto confessare che non riusciva a non pensare a questa cosa. E' andato tutto a mille pezzi". Nel film i figli dell'Olocausto incontrano i figli dei nazisti. Le memorie si confondono, i ruoli delle vittime e dei carnefici si sovrappongono e Eyal, agente israeliano del Mossad, è insieme vittima dell'Olocausto in quanto figlio segnato di una sopravvissuta e anche carnefice dell'arabo che uccide davanti agli occhi del suo figlioletto, che rimarrà a sua volta segnato per sempre da quell'omicidio. "Non pensi che abbiamo espiato abbastanza? Qual è la nostra colpa? Che cosa abbiamo fatto?" Si chiede la nuora del nazista, dopo anni vissuti nelle menzogne. Che collegamento c'è tra loro due, tra lei e il vecchio nazista? Lei si è solo innamorata del figlio di un uomo che ha ucciso milioni di uomini, deve pagare anche lei?
Quel fardello che arriva dal passato e che può essere superato
Tutte le famiglie hanno una storia da raccontare. In ogni famiglia c'è stato qualcosa di drammatico, improvviso, devastante. Un nonno morto in guerra, un altro prigioniero, un altro rimasto sotto le macerie del terremoto. Nei ricordi, quel lampo devastante in una giornata come tante. "Eravamo pronti per andare a fare la spesa quando è arrivata quella telefonata." Oppure racconti che si tramandano di generazioni in generazioni, come preziosi cimeli di famiglia, o come malattie ereditarie o debiti mai pagati che prima o poi aspettano di essere saldati. Perché le storie familiari sono come catene che si tramandano di padre in figlio, di madre in figlia. Ci arrivano addosso fardelli di cui non conosciamo la provenienza ne la storia, ma ci arrivano. Sotto forma di sottile disagio, malattie, veri e propri sintomi psicologici, un senso di colpa perenne o una cronica mancanza di soldi. Ereditiamo attitudini, aspirazioni, difficoltà. Siamo i figli dei sopravvissuti. Sopravvissuti a una guerra, a un orrore, a una catastrofe naturale, a un evento tragico che ha cambiato per sempre il corso di una vita o di molte vite.
Cosa facciamo quando ci rendiamo conto che abbiamo un trauma familiare irrisolto? E' assolutamente possibile lavorarci a livello terapeutico per diventarne consapevoli, scioglierlo, integrarlo e superarlo. Resistiamo alle tentazioni di soluzioni rapide, d’interventi di un solo giorno che ci promettono miracoli. A livello terapeutico è possibile lavorare sui traumi familiari con vari metodi, ma per la grande delicatezza di ciò che andiamo a toccare e come questo può incidere nella psicologia e nell'immaginario individuale, è importante affidarsi a operatori seri e adeguatamente formati che possono aiutare ad accompagnare lo sblocco emozionale da una rielaborazione e integrazione sul piano della personalità.
Malefica, la protagonista del film Maleficent della Disney. Foto web
E se le storie che ci hanno raccontato potessero essere viste da altri punti di vista? Se quello che per anni siamo stati abituati a considerare come “verità” avesse altre chiavi di lettura? C'è un'altra faccia della storia, che a volte ci sfugge. La storia del perché la perfida strega odiava tanto la Bella Addormentata... perché è perfida, malefica e cattiva, oppure perché sta vendicando un antico tradimento? Il bel film Maleficent, ci racconta l'altra faccia della storia della Bella Addormentata, quella che non ci hanno mai raccontato, il punto di vista della fata cattiva. Malefica, tradita, amputata, isolata, trasforma il suo dolore in rabbia e poi lancia dardi per colpire chi l'ha ferita e i suoi discendenti, la piccola Aurora. "Mi ero smarrita nell'odio e nella vendetta", la rabbia è cieca e colpisce anche chi non è direttamente responsabile. Aprire la nostra visuale ci rende consapevoli che la storia della nostra vita tante volte non è quella che ci raccontiamo noi. Se ci spostiamo dal punto in cui siamo fermi, possiamo vedere altri aspetti della storia che ci illuminano e ci danno altre chiavi di lettura. Questo è quanto accade in un percorso terapeutico. Riusciamo a uscire dall'antro stretto in cui ci mette il dolore e a guardare qualche metro in là prima, dall'alto poi. E quando riusciamo a guardare dall'alto la nostra storia, acquisiamo una compassione verso noi stessi e gli altri componenti del racconto. Aurora può guardare dall'alto la sua storia e vedere che chi le ha fatto male è in realtà un'altra vittima del dolore che è pronto a riparare il danno nel momento in cui entra in risonanza e in empatia con la persona colpita. E' quanto accade a tutti i pentiti che chiedono perdono alle loro vittime e alle famiglie. A quanti procurano il male senza riuscire a dare un volto alle conseguenze di quel male. Come se quell'azione non avesse conseguenze oltre l'azione in sé. Proviamo a pensare che ogni volta che non raccoglieremo la cacca del nostro cane da terra, il nostro amato padre anziano potrebbe scivolarci sopra, o il nostro bambino piccolo potrebbe toccarla e mangiarla. L'"altro" lontano diventa "persona", fratello, noi stessi. Aurora, la bambina odiata perché simbolo di tutto quello che le era stato tolto col tradimento, diventa una figlia amata, da proteggere dalle sue stesse maledizioni anche a costo della vita. Nel film la fata cattiva, Malefica, potrebbe simboleggiare la custode della Natura, che si vendica per il tradimento subito. Non è quello che in fondo ci sta accadendo? Non stiamo pagando e continueremo a pagare per le scelleratezze compiute dalla specie umana che assetata di potere ha distrutto e amputato la natura? Una volta perso l'amore della sua amata, l'uomo dimentica ciò che ha fatto e nega le sue responsabilità. Si sente perseguitato e arrabbiato per gli eventi che seguono e non collega ciò che gli accade con quell'antico tradimento. E continua a vivere nella rabbia e nel desiderio di vendetta, e solo guardarsi dentro in modo onesto e assumersi le sue responsabilità può veramente liberarlo.
«Saranno necessarie intere evoluzioni cosmiche d’amore per ripagare al regno animale i doni e i servizi resi all’uomo». (Christian Morgenstern, poeta)
Le storie degli altri
E poi noi, con le nostre storie familiari, incontriamo gli altri. Gli altri fuori di noi. Alcuni li sentiamo vicini, simili per provenienza, abitudini, colore della pelle, religione, altri no, sono lontani, li guardiamo con curiosità, sospetto, compassione, diffidenza, fastidio. Arrivano da fuori, da chissà dove, nelle nostre città, nelle nostre storie e forse vogliono il nostro posto. Forse siamo in pericolo e dobbiamo difenderci. Il nostro ego, la nostra individualità ci fanno arroccare e andare avanti con quell'istinto animale di sopravvivenza che tutti noi portiamo dentro. Moni Ovadia, in uno dei suoi ultimi monologhi in un teatro di Gorizia, ha ricordato come nelle migrazioni passate lo straniero che arriva fa fuori l'abitante di quella terra, lo uccide o lo schiavizza e prende tutto quello che ha e la paura di fronte all'altro che arriva nelle nostre terre ha quindi radici arcaiche, è un istinto di sopravvivenza che si risveglia e che lotta con il bisogno di fratellanza che pure molti esseri umani portano dentro. Di fronte al pericolo di non sopravvivere, di perdere il proprio lavoro, la propria famiglia, siamo capaci di aggrapparci all'altro, spingerlo sotto e sopravvivere grazie a quella spinta, ma poi, esseri complessi quali siamo, sopraggiunge quella parte di noi che percepisce l'altro come un fratello, come tanti credo religiosi predicano, che ci vede provenire tutti dalla stessa matrice, pezzi di un unico che si è frammentato nell'incarnarci sulla terra, e allora prevale il senso di colpa e di disagio che può pesare addosso come un mattone.
E se ci accorgessimo, per esempio, che quello che ci dà più fastidio è scoprire che gli altri che migrano e che arrivano sono come noi? Che noi non meritiamo quello che abbiamo di più di loro, che non ci spetta di diritto ma siamo solo semplicemente più fortunati, e allora una vocina dentro di noi ci dice che dovremmo condividere invece di girare la faccia. Sono come noi... i sentimenti, le speranze, le paure, le storie. Noi siamo nella nostra vita, con le nostre lotte, e loro vorrebbero stare al nostro posto, nelle nostre case, con i nostri lavori, con le nostre sicurezze, e noi non vogliamo cederlo quel posto, a nessun costo, ce lo siamo guadagnato. Ci secca ammettere che se ci guardiamo con i loro occhi le nostre preoccupazioni quotidiane sembrano inesistenti, ci secca l'idea che possano giudicarci "che hai da lamentarti tu che hai tutto quello che a me manca... di cosa mai sei depressa? Che significa depressa? Che sono le abbuffate bulimiche e perché rifiuti il cibo quando, beata te, puoi mangiarne a sufficienza? Dal loro punto di vista siamo assurdi nei nostri lamenti, nelle nostre corse quotidiane, affannate e senza senso per avere sempre di più. Ci secca, ma più di tutto percepiamo la "minaccia" che essi rappresentano, e di cui sempre più spesso parlano le cronache. Le vecchie generazioni hanno combattuto, i nostri nonni hanno affrontato la guerra, le nostre madri sono state affamate e orfane, i nostri padri hanno lavorato nei campi sin da piccoli per il nostro Paese e per renderci il popolo libero e pieno di possibilità che siamo oggi nelle nostre case, nella nostra terra. Con queste consapevolezze diventa difficile sostenere un confronto con loro, con le loro vite con la loro cultura a tratti così diversa dalla nostra. La visione della vita, il suo valore sono differenti e trovare punti di contatto rimane complesso. A ciò si aggiungono dinamiche più grandi, legate alla politica internazionale e alle scelte del potere, quasi un mondo parallelo alla realtà di questi fenomeni sociali.
Sarebbe uno sforzo importante quello di uscire dal giudizio su di noi e/o sugli altri e potere fare un confronto sereno. Come quello che avviene nel film Samba, che ci porta nell'universo dell'immigrazione francese e ci fa palpitare insieme ai protagonisti. Ci fa sperimentare insieme a Samba, clandestino senegalese, pieno di vita e di coraggio, il suo desiderio di avere una nuova possibilità, un riscatto, e poi ci fa diventare di nuovo spettatori e ci fa osservare il confronto tra due mondi che si incontrano, quello di Samba, intento a sopravvivere, e quello di Alice, dirigente d'azienda in crisi esistenziale, intenta anche lei a sopravvivere, ma mentre al ragazzo mancano le risorse materiali, alla donna mancano quelle interiori. Nel film non c'è giudizio per nessuno dei protagonisti, per nessuna delle culture da cui provengono, ma solo un confronto, un'osservazione di come si può essere diversamente infelici in mondi diversi e di come lo scambio e l'avvicinamento possono arricchire la vita, portare il sorriso e la dolcezza dove mancavano.
Gli altri, volenti o no, entrano nelle nostre vite e le cambiano. Ben descrive Enrico Letta nel suo "Andare insieme, andare lontano" le emozioni di chi è coinvolto nelle storie degli altri. Impotenza, dolore, sgomento.
"3 ottobre 2013, naufragio vicino alla costa di Lampedusa. Racconti e immagini strazianti. Livelli di disagio impossibili da sostenere in una realtà piccola come quella dell’isola. …Quello strazio stava là a testimoniare quanto tutta l’Europa doveva comprendere...Volevamo che vedessero con i propri occhi cosa significasse, per abitanti, volontari e corpi dello Stato, acconciarsi al compito pietoso del recupero dei corpi, all’organizzazione delle camere mortuarie, all’assistenza ai superstiti… Al Presidente della Commissione dissi con franchezza che avremmo incontrato tra gli abitanti dell’isola un’esasperazione fuori controllo.
La popolazione era esasperata, prostrata per l’emergenza e scossa dal dolore cui era costretta ad assistere. … Nella camera mortuaria mi sono inginocchiato d’istinto. Per manifestare il dolore e il rispetto, credo. Ma anche perché non potevo fare altro, nient’altro. Era, ora che ci penso, anche il “segno” della nostra impotenza in quanto Stato e comunità nazionale di fronte a quei morti. Le vittime alla fine furono in totale 366. L’operazione Mare nostrum, come risposta a quell’impotenza, come condizione per rimetterci in piedi di fronte a quelle bare, è nata proprio lì". “Andare insieme, andare lontano” Enrico Letta, Mondatori, 2015
Chi partecipa alle operazioni di soccorso, in tutti i livelli possibili, da quelli operativi a quelli decisionali, ma anche come semplice osservatore, viene toccato. Solo assistere, solo vivere nella stessa isola con i profughi sopravvissuti scuote profondamente gli animi. A distanza di più di 10 anni quell’episodio è ancora vivido in Enrico Letta, tanto da raccontarlo nel suo libro, non solo nel dolore ma anche per il suo risvolto creativo. L’impotenza ha dato luogo a un progetto d’intervento, ha dato un nome a quell’emergenza.
Un evento drammatico non coinvolge solo quella persona o al massimo tutta la sua famiglia, ma il sistema che ha intorno, le persone che ne fanno parte e poi continua a esercitare la sua influenza sulle generazioni successive. Marco si rivolge a me per aiutarlo a digerire un episodio particolarmente pesante sul lavoro "Sono un operatore formato, con anni di esperienza, in Pronto Soccorso ne vedo tante e tante, e non dovrebbe impressionarmi vedere scene forti, eppure vedere il cadavere di quella ragazzina che si è tolta la vita, sentire i racconti della lucidità con cui aveva programmato il suo gesto, mi ha sconvolto. Ho subito pensato a mio figlio, alle volte che l'ho visto schiacciato sotto il peso dei compiti, della solitudine, del suo sentirsi inadeguato. Mi sono subito chiesto se sono un buon padre, se anche mio figlio potrebbe fare una cosa del genere. E' da allora che dormo male. So che è assurdo, ma mi sento in qualche modo responsabile".
Siamo tutti responsabili di ciò che accade, dell'indifferenza di cui siamo capaci e i gesti estremi che incrociamo sulla nostra strada ci vengono a svegliare, scuotono le nostre coscienze, ci ricordano che l'ipnosi collettiva in cui siamo caduti andando dietro alle nostre dipendenze e routine quotidiane ci toglie umanità. Nella filosofia buddista, che studia da secoli l'essere umano e il suo stare nel mondo, esiste il principio di non differenza per cui tutto ciò che incontriamo fuori ci riguarda e ci fa da specchio. Volendoci spingere oltre, secondo il buddismo nel reincarnarci ci viene offerta l'opportunità di vivere le stesse esperienze da altri punti di vista, e provare quello che hanno provato le persone che abbiamo incrociato in un'altra vita.
Jung, uno dei fondatori dell’analisi psicologica, parlava di un inconscio collettivo, simile a quello a cui si riferisce Steiner a proposito dell'anima di gruppo degli animali. E' qualcosa di più dell'istinto, è poter accedere in modo collettivo allo stesso sentire e andare così oltre la propria individualità. Questa connessione è quella su cui si basa la psicoterapia ad approccio sistemico. Il sistema è un'interconnessione tra le sue parti e ciò che accade a uno, si riflette in qualche modo su un altro. I bambini, ad esempio, ma anche gli animali, spesso esprimono dei sintomi che non riguardano tanto loro stessi quanto l'intero sistema di appartenenza Ciò che gli adulti riescono a controllare dentro di sé viene manifestato senza filtri da un bambino. Quanto più è forte il blocco emotivo e il bisogno di negare i vissuti, tanto più il sintomo è forte e invasivo. Questa chiave di lettura è preziosa per uno psicoterapeuta che si trova ad affrontare dei sintomi che a livello individuale sembrano non significare nulla. Riprendendo il tema di articoli precedenti, se una donna è infelice nella sua coppia perché si sente sola e trascurata e fa finta di nulla per non coinvolgere i figli, in realtà questi sono già coinvolti perché fanno parte di quello stesso sistema e sono strettamente connessi alla madre, sentono la sua infelicità a un livello profondo e la fanno loro proprio perché la madre non la manifesta. Le emozioni che galleggiano inespresse in un sistema vengono assorbite ed espresse in modo sintomatico da un altro individuo del sistema.
Apparentemente è quel sintomo che fa saltare l'equilibrio, in realtà è solo quello che esprime tutto il non detto. Spesso i bambini portano i genitori in terapia attraverso i loro sintomi. Costringono i genitori a vedere e a prendere atto di verità scomode. La stessa funzione a volte hanno i sintomi fisici. "Mio figlio Davide di 6 anni non vuole andare a scuola. Ogni giorno è una storia, è un pianto. La cosa che più mi lascia perplessa è che a scuola va tutto bene. La maestra è gentile e accogliente, anche a detta di altri bambini, e allora perché mio figlio non vuole separarsi da me, sembra che non voglia proprio lasciare la casa". Nei colloqui successivi è emersa la grande tristezza di Luisa, la mamma di Davide. E' una mamma presente e dedita alla sua famiglia, ma ammette con se stessa che quando il bimbo la mattina va a scuola il suo senso di solitudine si amplifica e spesso ha fantasie in cui va via, lascia la sua famiglia in cerca di una situazione più appagante per lei. Il problema di Davide non ha nulla a che vedere con la scuola, semplicemente pur essendo così piccolo si è preso in carico la felicità della mamma, si rende conto che lui è l'unico in famiglia che ne ha cura perché il padre è emotivamente distante. Il membro della famiglia che vuole svelare verità scomode può farlo soltanto attraverso il sintomo, il prezzo che paga, altrimenti, è quello di essere espulso dal sistema ed essere considerato inadeguato. La dinamica familiare è più forte di ogni suo membro. Prende il sopravvento fino a tacere la propria verità interiore, il proprio sentire. Bisogna adeguarsi al sistema per continuare a farne parte, bisogna vedere con i suoi occhi, credere quello che il sistema stesso crede, abbracciare il mandato della propria famiglia. Il sistema familiare si chiude e protegge se stesso, a costo anche di sacrificare un membro o la sua integrità mentale e psicologica.
La "colomba" nata dai cristalli, frutto del lavoro della ricercatrice Daniela Panzeri, presentata durante la cerimonia in Scozia ad Allanton Peace Sanctuary nel 2012. Foto D. Panzeri e laboratorio Acquaviva
Tornando al sistema sociale, vedere gli altri intorno a noi soffrire ci crea comunque un disagio. A livello psicologico possiamo parlare di un meccanismo d’identificazione per cui ci mettiamo al posto degli altri, a livello spirituale possiamo tradurlo in una connessione sottile. In ogni caso, gli esseri intorno a noi e le loro storie influenzano la nostra vita, che lo vogliamo o no. Secondo gli studi di Masaru Emoto, lo scienziato giapponese recentemente scomparso, l'acqua ha una memoria e prende la forma di ciò che ha intorno. Così le molecole dell'acqua di un ruscello prendono la forma del fiore che cresce sulle sue sponde. E in maniera ancora più sorprendente prendono la forma delle parole e dei pensieri che gli esseri intorno esprimono. Durante una cerimonia per la pace tenuta in Scozia da un centinaio di persone, le molecole delle acque raccolte da Daniela Panzeri, attenta ricercatrice che da anni sta effettuando in Svizzera ricerche simili a quelle di Emoto, hanno assunto la forma di una colomba, che a livello simbolico rappresenta appunto la pace. Le ricerche in questo senso sono ancora agli albori, ma fanno intravedere come questa interconnessione potrebbe non essere solo una questione psicologica, e già non è poco, ma avere anche altre chiavi di lettura. Potremo mai più bagnarci nel mediterraneo e non pensare a quanti hanno lasciato in quei mari la loro vita, a che forma hanno preso le molecole di quelle acque, quali pensieri, desideri e preghiere vi sono rimasti impressi?
Flavia Donadoni è psicologa e psicoterapeuta, lavora con singoli, coppie e famiglie. Ha una lunga esperienza professionale nel sostegno terapeutico delle donne, per il superamento di fasi del ciclo vitale e disagi relazionali. Di recente è autrice di numerosi progetti dedicati ai disagi derivanti dal gioco d'azzardo patologico. Nel suo approccio terapeutico ha approfondito l’utilizzo e l’integrazione di varie tecniche, tra cui quelle psicocorporee. E' curatrice di vari progetti dedicati alle donne, e autrice di articoli e approfondimenti su riviste specializzate. Per informazioni: www.flaviadonadoni.it - flavia.donadoni@gmail.com
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