Di Leandro Abeille
Lusaka (Zambia), 10 settembre 2015
Se si fa scalo in un aeroporto africano, si nota immediatamente l'enorme flusso di cittadini cinesi che arrivano o partono. Tecnici, lavoratori specializzati, uomini d'affari, diretti in ogni angolo dei paesi subsahariani. In uno scalo importante come quello di Addis Abeba sono ovunque e vanno ovunque. All'uscita degli scali, gli enormi cartelloni pubblicitari di aziende cinesi, danno l'idea del flusso di capitali che intercorre tra la Cina e l'Africa. La Cina sta indirizzando una fonte non trascurabile dei propri sforzi economici in Africa e, nel continente, quasi tutto parla cinese. Non sono solo 4 negozi che vendono merce con il simbolo CE contraffatto, ma tutto un business che parte dalle banche, passa per la tecnologia energetica, fino ai mezzi pesanti. Tutto ha gli occhi a mandorla e parla mandarino.
La cartellonistica pubblicitaria lungo i percorsi principali a Lusaka (Zambia). Foto L. Abeille
Per questo sforzo economico l'Africa, più o meno, ringrazia. Più o meno, perchè chi viveva nelle zone rurali, in capanne fatte di fango e paglia o negli slum[1], continua a viverci, la classe media stenta a decollare e mentre i governanti diventano immensamente ricchi, il celeste impero tramite le aziende impegnate, guadagna. Non è solo economia della scelta di un partner commerciale, questo è il nuovo colonialismo. Quello vecchio, inglese, francese o italiano che creava stati fantoccio, è morto e sepolto. Giustamente. Questo nuovo non ha bisogno di creare Stati fantoccio o nominare governatori, perché gli Stati e i governatori, in maniera diretta o indiretta, li paga, ricevendone in cambio, commesse miliardarie. Piano piano la presenza economica sta diventando cosi ingombrante che devia verso l'invasione della cultura. Per permettere ai propri cittadini di essere ancora più disponibili verso l'ingombrante potenza economica, qualche ministro dell'educazione africano preme per introdurre il cinese mandarino al posto dell'inglese nelle scuole, mentre per rendere più confortevole la permanenza dei cinesi, nascono alberghi e resort con gli occhi a mandorla. Le linee aeree danno i messaggi nella lingua locale, in inglese e in cinese, tutto è un fiorire di afro-chinese enterprises. Le aziende europee o americane sono ormai un vago ricordo e lasciano il posto a quelle cinesi. Sarebbe solo la conseguenza di strategie politiche ed economiche dei paesi africani, se non fosse per il fatto che di aziende genuinamente autoctone non se ne vede l'ombra. Cambiano gli scenari, cambia il modo di farlo, ma l'Africa ha ancora una volta un padrone straniero.
In tutto questo cambio di prospettive africane, l'Europa, strozzata dalla sua mancata crescita e l'ideale di essere la terra della democrazia e dei diritti, parla di libertà e di libero mercato al suo interno senza però influire con una seria politica esterna. Quando al primo problema, la Cina dimostra che nella sua economia non esiste il liberalismo, ma gli operatori finanziari rispondono ai comandi del governo di Pechino, così come successo qualche mese fa con il primo crollo dell'indice di borsa cinese, ci si rende conto che forse l'economia di mercato legata a uno stato comunista non rispetta le regole le quali, invece, noi, all'interno dell'Unione, siamo costretti a rispettare. Si dovrebbe chiamare concorrenza sleale, ma nessuno la nomina per la paura dell'effetto domino del calo di una borsa importante sulle altre. Qualcuno pensa che l'Occidente si stia preparando ad affrontare il celeste impero militarmente, per questo armiamo Taiwan, soprassediamo sul riarmo giapponese e compriamo gli F35 che hanno il solo scopo di lanciare armi nucleari tattiche senza essere visti. Ma al di là della fantapolitica, l'Europa, prigioniera di se stessa, si incastra e si rigira sulle sue differenze e mentre si divide sull'accoglienza ai migranti non si interroga perché nessuno di questi lasci la propria terra per un colosso economico vero come la Cina che cresce, rispetto all'Europa, esponenzialmente. In fondo quando gli USA crescevano a due cifre i migranti si dirigevano in quella direzione, cosi abbiamo fatto noi italiani con l'Argentina o la Germania, ma nessuno lo fa per la Cina. Storicamente i migranti si dirigono verso le terre dell'opportunità. Attualmente l'Europa dei PIGS[2] e della crisi è tutto tranne che la terra delle opportunità.
La pubblicità "made in china" lungo le strade di Lusaka (Zambia). Foto L. Abeille
La situazione è questa, l'Europa importa milioni di migranti senza sapere che occupazione dargli e che spesso diventano la prima linea del crimine, perdendo milioni di euro nell'accoglienza e la gestione che potrebbero essere investiti per una seria ricrescita, mentre i cinesi guadagnano milioni di euro facendo affari con i paesi africani. In mezzo a tutto il giro miliardario d’interessi ci stanno gli africani. Senza speranza emigrano pur di tentare di svoltare nella loro vita non sapendo che quello che lasciano diventa proprietà di altri e nel caso volessero tornare indietro non la ritroverebbero più. Gli rimane il futuro che è nero per gli europei e per loro è ancora peggio.
Quello di cui ancora non ci rendiamo conto è che, se è vero che la Cina anche per l'Europa è un grande affare, grazie alla loro richiesta di professionisti e di lusso, di cui noi italiani siamo maestri, è pur vero che ormai dipendiamo dalla componentistica cinese, basta guardare il produttore delle cose che comunemente usiamo. E' vero che un mercato di un miliardo di persone è appetibile, ma allo stesso tempo un paese con un miliardo di operai che lavorano a cifre basse e senza garanzie sindacali, è sopportabile per l'industria europea?
[1] Slum. Quartiere urbano di abitazioni sordide e malsane, privo di adeguati servizi igienici e sociali.
[2] PIGS. Acronimo utilizzato da giornalisti economici, per lo più di lingua inglese, per riferirsi a diversi Paesi dell’Unione Europea, in particolare Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, le cui iniziali formano l'acronimo.
Leandro Abeille è giornalista e sociologo, OSCE Law Enforcement Instructor.
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