Di GIOVANNA RANALDO Bari 14 novembre 2014
Cambiamenti geostrategici, difficoltà comunicative, variazioni repentine di regole e dinamiche sullo sfondo di una sempre più complessa crisi economica. Guardando al mondo, ci si accorge che tutto è in piena evoluzione a ritmi incessanti, e bello o buono che sia l’esito, ci si deve fare i conti tutti i giorni. Un milieu in cui svolgere la professione di giornalista “made in Italy”, diventa sempre più complesso, perché la pratica non porta all’articolazione del “mestiere” di una volta: le rinnovate realtà sociali e comunicative (anche sullo sfondo internazionale), richiedono che si possa essere in grado di praticare una “professione”, nel pieno rispetto di regole e principi.
Per farla breve, come raccomandava il primo caposervizio di chi scrive in tempi assai remoti: <<Impara il mestiere sulla strada, percepisci l’umore della gente, studiane i comportamenti, ascolta i toni, osserva la società nelle sue pratiche giornaliere, ma associa a tutto questo lo studio, perché solo così ne farai la tua “professione”. E come dice Indro (Montanelli n.d.r.), fai del tuo meglio per essere chiara e comprensibile da tutti>>.
Eh sì perché per liberare il giornalismo dal ruolo ancillare di “mestieraccio” di un tempo (inteso con accezione negativa), è necessario impararne anche le regole dettate dalla deontologia, e non solo quelle sociali, perché il giornalismo oggi non si pratica più solo negli stretti vicoli della propria città, ma si espande, si articola e si fonde a tutto il resto del mondo. E allora la società non è solo quella a cui si appartiene “per nascita” o “crescita professionale”, ma trova implicazioni sul fronte internazionale, dove esse si contaminano a vicenda. Lì le regole sono anche quelle insegnate sui libri. Un compito non semplice, quello di indicare la via della trasparenza deontologica, che tuttavia regolamenta una professione in cui è facile “scivolare” e perdere di vista i limiti imposti dal rispetto nei confronti degli altri, e non solo.
A raccontare l’importanza della consapevolezza dei propri strumenti di lavoro, è un esperto, autore di numerosi testi di deontologia professionale, il Prof. Michele Partipilo, giornalista professionista dal 1987 (subito dopo aver conseguito una laurea in filosofia con il massimo dei voti), è Redattore capo centrale della Gazzetta del Mezzogiorno con una grande esperienza come inviato in Medio Oriente.Dalla sua prima nomina a Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Puglia, nel 1995, Partipilo ha ricoperto l’incarico fino al 2007, riconfermato dai colleghi per altri tre mandati. In questa veste si è avvicinato allo studio delle problematiche legate al mondo dell’informazione e nel 2005 ha pubblicato un primo volume dedicato: “Le notizie e la persona – dalla diffamazione al diritto alla privacy”, ma il suo impegno è andato oltre. Dal 2007 al 2013 è stato Consigliere nazionale dello stesso Ordine e ha fatto parte del Comitato esecutivo con delega al coordinamento delle scuole di giornalismo, curando la pubblicazione dei quattro volumi editi dall’Ordine per la preparazione all’esame da professionista. Attualmente è anche componente dell'Osservatorio di deontologia, istituito dal Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti e autore di numerosi saggi e articoli specialistici in tema di deontologia professionale e il diritto di cronaca.
L’occhiata è decisamente autorevole, ma chi si aspetta un noioso studioso di deontologia nascosto dietro un atteggiamento riluttante resterà deluso. Michele Partipilo è una persona solare e di grande cordialità, non a caso l’oratore preferito di molti studenti e colleghi in giornalismo. Allegro, sempre preparato e meticoloso, riesce a “raccontare le regole” in maniera coinvolgente, grazie a una straordinaria esperienza e all’ottima predisposizione all’insegnamento. Sempre impegnatissimo su svariati fronti, ci riceve nella redazione del suo giornale a Bari, in un grigio pomeriggio di metà novembre.
Il Prof. Michele Partipilo. Foto De Armas
Quando hai deciso che avresti fatto il giornalista?
Negli ultimi anni del Liceo, quando pensavo a che cosa fare della mia vita. Collaboravo a un periodico diocesano e mi piaceva molto. Oggi mi chiedo ancora se ho fatto la scelta giusta. Mia madre voleva che facessi l'avvocato e forse non aveva torto: in questi ultimi anni ho scoperto un’insospettata passione per il Diritto, anche perché vedo al tramonto il giornalismo, almeno nella forma che è piaciuta a me e alla quale ho dedicato 30 anni della mia vita.
Qual è oggi a tuo avviso lo scenario mediatico che si presenta al giornalista, in cui muoversi, operare, ricercare e scrivere? E quali le “condizioni di salute” (se così possiamo dire) della professione?
È uno scenario confuso, con regole molte sfumate e quindi difficili a volte da cogliere e applicare. La crisi ha favorito un’insopportabile commistione delle notizie con la pubblicità e sempre più spesso la professione è utilizzata solo per creare consenso o per combattere battaglie ideologiche. Io credo che il giornalismo debba solo inseguire la verità dei fatti e raccontarla facendosi comprendere da tutti. La diffusione capillare dell'informazione oggi richiederebbe un'altissima professionalità e una specializzazione piuttosto spinta. Invece per far fronte al calo della pubblicità e comunque dei ricavi, si mette a repentaglio la qualità, sottopagando i giornalisti o – più semplicemente – affidandosi a tuttologi che poi confondono un tedesco con una patata.
La crisi ha favorito una commistione di notizie e pubblicità. Foto Web
Giornalismo anglosassone e italiano: un’immagine che appare alquanto desolata. Da un paio di secoli, in Gran Bretagna, il giornalismo rappresenta una sorta di “cane da guardia” dell’interesse pubblico. In Italia invece si focalizza sugli interessi del gruppo politico o economico di turno al potere. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
Il giornalismo italiano riflette i mali profondi del Paese. Uno dei più gravi è il diverso approccio all'etica pubblica. Nei Paesi di tradizione anglosassone molte leggi funzionano anche senza particolari apparati repressivi. In Italia neppure le norme sulla sicurezza, che pure tutelano la salute, sono applicate dagli stessi interessati. Abbiamo bisogno di controllori e di sanzioni per fare qualsiasi cosa. E così i giornalisti: sempre a percorrere la via più comoda e a salire sul carro del vincitore. Più che cani da guardia, in Italia molto spesso diventiamo cani da compagnia. Ma non è tutta colpa nostra: come dicevo, ci sono antichi retaggi storici e culturali che pesano ancora, come per esempio l'assenza di una Riforma protestante e di un'integrazione Nord-Sud ancora da raggiungere.
Considerati strumenti come le new technologies, la comunicazione in tutte le sue articolazioni (da quella politica a quella di massa) e fenomeni sociali come la “crisi mediatica” (sotto la lente degli analisti), secondo te sono sempre i giornalisti a scegliere quali informazioni dare e come darle? Quali le accortezze?
I giornalisti sono prigionieri di un meccanismo molto più grande di loro che raramente riescono a controllare. L'agenda delle notizie è dettata su scala planetaria da grandi decisori politici ed economici. E questo spiega perché all'improvviso si "scoprono" o scompaiono notizie da siti e giornali. Le nuove tecnologie si sperava che avrebbero potuto contrastare questa situazione. In realtà il "chiasso" delle voci della comunicazione globale è così alto che non fa emergere in maniera decisa e attendibile quella che una volta si chiamava controinformazione. Per cui alla fine la legittimazione e la gerarchia delle notizie è data ancora dai quotidiani che, proprio per questo, restano l'oscuro oggetto del desiderio di poteri e potentati, al di là dei ricavi che producono. Il giornalista si può difendere bene sulla cronaca locale che, per sua natura, sfugge al controllo globalizzato. E allora – se c'è – emerge il bravo professionista, colui che ha fiuto, mestiere e sensibilità.
Quanto è importante la deontologia per un giornalista?
La deontologia per il giornalista è tutto perché è la professione in sé. Non esiste, non può esistere un giornalista professionalmente bravo e deontologicamente scorretto. Sono due facce della stessa medaglia. Il cattivo giornalista è anche inevitabilmente poco attento alla verità dei fatti e al rispetto delle persone. Lo ripeto: solo la deontologia può fare il buon giornalista.
Spesso si rileva un errore piuttosto diffuso, una confusione di base di due concetti fondamentali: la deontologia e l’etica dei giornalisti. Qual è il tuo pensiero?
In una realtà generale poco sensibile a questi temi – basta guardare al mondo politico o imprenditoriale – è più che naturale che se ne parli poco e, dunque, si approfondiscano poco questi argomenti. Per me l'etica è la tensione morale che hai dentro, è la forza che ti porta a distinguere ciò che è bene da ciò che è male. La deontologia sta un gradino più in basso ed è lo strumento concreto che mi permette di applicare quei principi che altrimenti resterebbero troppo astratti e mi porterebbero a vivere un po' fuori dal mondo. Il problema vero dell'etica e della deontologia è su quali princìpi vogliamo fondarle. Ieri erano piuttosto marcati nella nostra tradizione culturale ed erano in buona parte mutuati dalla religione. Oggi in una società liquida, come la definisce Zygmunt Bauman, ma io preferirei dire melmosa, è molto più difficile individuare punti fermi per orientare il nostro agire.
Il tuo background come giornalista è molto corposo. Ricordiamo la tua esperienza come inviato dell’area medio-orientale da Iran, Iraq, Israele, Libano e Siria. Conosci profondamente le problematiche legate all’esercizio della professione in ambiti internazionali così critici. Qual è la prospettiva d’analisi?
Mi sono interessato di quelle aree in tempi ormai lontani. Devo dire che quell'esperienza mi ha insegnato molto. Oggi vedo però tutto cambiato nella professione dell'inviato. E in questo credo che molto giochi la tecnologia. Faccio un esempio. Durante la prima guerra in Iraq io e gli altri colleghi potevamo trasmettere i nostri pezzi solo attraverso il telex[1] dell'albergo dove alloggiavamo, perché i telefoni satellitari erano costosi e grandi come un valigione: ne aveva uno solo il collega della Rai. Per cui dovevamo essere attenti a non usare negli articoli espressioni troppo forti contro il regime per evitare ritorsioni. In quel periodo, per esempio, era molto di moda sui nostri giornali la parola "raìs", usata sempre in senso spregiativo per indicare Saddam Hussein. Per gli iracheni, invece, significava soltanto "il presidente" per cui non creava problemi abbondare con i raìs quando si voleva condannare discorsi, azioni e decisioni del dittatore. Oggi qualunque inviato ha a disposizione potenti e comodi strumenti con cui può scrivere, riprendere e trasmettere in diretta.
Terminale Telex T100 di fabbricazione Siemens. Foto Web
Hai visto svilupparsi una nuova figura di giornalista, l’embedded (nata in Usa n.d.r.). Rispetto agli americani l’Italia ancora ha difficoltà a riconoscere e regolamentare questo specialista, nonostante sia una realtà ben concreta con tutte le sue sfumature. Quali secondo te i contorni deontologici di chi opera con questo ruolo?
Credo che il giornalista embedded abbia un duplice dovere di correttezza: rispetto a se stesso e al suo pubblico. Con entrambi deve essere chiaro nel dire che la sua ricerca della verità è condizionata dalla particolare situazione. In questi casi si sceglie il male minore: meglio una notizia incompleta che il silenzio assoluto. Ciò che il giornalista embedded non potrà mai accettare è di diventare strumento di propaganda o, peggio, di mettere a servizio di scopi diversi dall'informazione la sua professione e la credibilità che da questa gli deriva.
Cosa consigliare ai colleghi sul fronte delle regole (non solo di comunicazione interculturale), che operano o si apprestano a lavorare nei teatri di crisi, sia in veste di embedded che di unilateral?
Mi verrebbe da dire la prudenza. Che non è solo l'attenzione alla propria incolumità. Ma è anche per esempio non farsi prendere dall'ansia dello scoop che spesso non ci fa ragionare criticamente e non capiamo che stiamo cadendo magari in una trappola. Oppure che per la stessa ansia possiamo mettere a repentaglio la vita di altre persone o la riuscita di un'operazione. Attenzione: non sto dicendo che bisogna condizionare l'informazione ai suoi effetti, ma solo che questi devono essere valutati dal giornalista, deve cioè essere consapevole di che cosa può o non può accadere se diffonde una certa notizia. Devono esserci consapevolezza e responsabilità, le stesse qualità richieste a chi esercita un potere e noi esercitiamo un potere enorme. Trovo insopportabile la figura del giornalista "pentito" quello che messo di fronte ai guai che ha combinato risponde: ma io non immaginavo che accadesse questo.
Quali sono i più comuni errori che vengono compiuti in termini di deontologia dai giornalisti (come ad esempio l’obbligo di far leggere le domande di un’intervista prima che avvenga, o la convinzione che il virgolettato salvi da tutte le responsabilità rispetto a terzi)?
Credo che gli errori più comuni sono quelli che io chiamo di "lesa maestà". Cioè quando in qualche modo viene toccato l'orgoglio – meglio, direi la superbia – professionale. E questo accade per esempio quando un intervistato ci chiede di rileggere la sua intervista e magari di correggerla, di tagliare una risposta. Oppure quando arriva una richiesta di rettifica. Un'altra categoria di errori molto diffusi è data dalla superficialità. Persone che nel corso dell'articolo cambiano nome, l'assassino confuso con la vittima, le città e i paesi spostati da una regione a un'altra, le età dei protagonisti e i tempi dei fatti sbagliati e via di questo passo. Spesso non sono mancanze gravi ma denotano una sciatteria, una superficialità che abbassa la credibilità e quindi il valore professionale di quel collega. Vi è poi un'altra serie di errori determinata da ignoranza vera e propria, per esempio quella relativa alle norme che regolano la professione: dal diritto di cronaca, alla privacy, alla legge sulla stampa.
Oggi si parla di formazione professionale continua, cos’è, cosa comporta e quali i suoi obiettivi in concreto?
Per fortuna è stata resa obbligatoria anche per i giornalisti. Ci sono colleghi che sono rimasti fermi a quando avevano studiato per l'esame professionale di 20 o 30 anni fa. In questa fase di rodaggio è chiaro che sembra tutto un po' strano, che ci sono corsi da tarare meglio sulle esigenze di chi li frequenta, che deve essere messo in piedi un meccanismo organizzativo e di controllo più efficiente. Però credo sia una grande opportunità e, per esperienza diretta, posso dire che quando un corso è ben fatto, tenuto da docenti preparati e capaci, su temi d’interesse per la professione, anche i più scettici ne ammettono l'utilità. L'obiettivo credo sia proprio quello di tenere la nostra professione al passo con i tempi cercando di livellarne verso l'alto la qualità media. In più penso che la Formazione continua dia ai giornalisti quella dignità che possiedono gli altri professionisti, anche se noi non abbiamo ancora un percorso di studi definito e obbligatorio.
Sei uno dei componenti dell'Osservatorio di deontologia. Cos’è e quali i suoi compiti?
L'Osservatorio è nato per volere del Consiglio nazionale dell'Ordine all'indomani della riforma che, oltre a introdurre la formazione continua, ha anche affidato le funzioni disciplinari ai consigli di disciplina. Per cui c'era necessità di un organismo che facilitasse questa separazione di funzioni ma che in qualche modo fosse neutrale fra i "vecchi" e i "nuovi" consigli: quello "amministrativo" e quello di disciplina. Per cui il nostro compito è quello di facilitare in ogni modo questo sdoppiamento di funzioni, innanzitutto monitorando la situazione e poi suggerendo al Consiglio nazionale eventuali accorgimenti o modifiche da proporre al legislatore. Non solo, ma vorremmo anche cercare di arrivare a una semplificazione dei documenti deontologici che sono diventati troppi: è sempre più difficile tenerli presenti e rispettarli nel lavoro quotidiano.
Quale percorso ti senti di suggerire a un giovane che desidera avviarsi alla professione di giornalista?
Sicuramente di frequentare una scuola di giornalismo riconosciuta dall'Ordine, se ne ha la possibilità. In alternativa, frequentare una buona facoltà universitaria che piaccia tantissimo, in modo da appassionare agli studi: è solo con la passione che si riescono a fare le cose migliori. Dopodiché mettersi a caccia di un “aggancio” con qualche testata per cominciare una dura gavetta. Attenzione però a non cadere nella trappola di essere sfruttati a vita da gente senza scrupoli. Se proprio si deve accettare una situazione di lavoro in nero, bisogna almeno porre un paletto certo sul termine. Se la situazione si trascina, bisogna avere il coraggio di interromperla con decisione e magari rassegnarsi a fare altro. Un collega cameraman sfruttato da una serie di tv locali col miraggio dell'assunzione, ha trovato il coraggio di dire basta. S'è indebitato e ha frequentato un corso di cucina: ora ha aperto un ristorante e medita di aprirne un secondo, conduce una vita agiata e il giornalismo è rimasto un ricordo.
Internet, social media e la crisi dell’editoria. Secondo te quale potrebbe essere il futuro del giornalismo italiano?
Sono convinto che i giornali tradizionali hanno ancora un futuro, solo che dobbiamo imparare a farli meglio e con un'ottica diversa. Oggi sono ancora "contenitori" di notizie alla pari di un Tg o di un qualunque sito che ha il non trascurabile vantaggio di non avere limiti di spazio e dunque di poter contenere tutte le notizie di questo mondo. Il giornale a stampa deve puntare a mettere un ordine, una gerarchia nel mare delle informazioni che oggi sono disponibili. Diventerà forse uno strumento d'élite, però resterà e manterrà un ruolo di primissimo piano. Ma per fare questo occorre che si affermino editori che non hanno interessi in altri settori. Proseguirà insomma questa fase di sofferenza che diventerà anche una sorta di dolorosa "purificazione" per l'editoria italiana. Per quanto riguarda Internet, superata la sbornia della fase iniziale, certamente troverà un assetto diverso in cui sarà più marcata la differenza fra chi diffonde fatti, idee o opinioni e chi invece è giornalista. Oggi viviamo una fase confusa e questo, come dice Rodotà, è normale perché siamo in un momento di transizione, una transizione che però incide sulla realtà cambiandola profondamente.
[1]Il termine telex (acronimo di TELeprinter EXchange) indica un sistema di telecomunicazione sviluppato a partire dagli anni trenta e largamente usato nel XX secolo per la corrispondenza commerciale tra aziende.
RIPRODUZIONE RISERVATA